Sono nata in Sardegna. La mia famiglia, composta da gente savia, ma anche di violenti e di artisti primitivi, aveva autorità e aveva persino una biblioteca. Ma quando cominciai a scrivere, a tredici anni, fui contrastata dai miei.
Il filosofo ammonisce: se tuo figlio scrive versi, correggilo e mandalo per la strada dei monti; se lo trovi nella poesia la seconda volta, puniscilo ancora; se va per la terza volta, lascialo in pace perché è un poeta. Senza vanità anche a me è capitato così.
Avevo un irresistibile miraggio del mondo, e soprattutto di Roma. E a Roma, dopo il fulgore della giovinezza, costruii una casa tutta per me, dove vivo tranquilla col mio compagno di vita ad ascoltare le ardenti parole dei miei figli giovani.

Ho avuto tutte le cose che una donna può chiedere al suo destino ma grande, sopra ogni fortuna, la fede nella vita e in Dio. Ho vissuto coi venti, coi boschi, con le montagne. Ho guardato per giorni, mesi e anni il lento svolgersi delle nuvole sul cielo sardo. Ho mille e mille volte poggiato la testa ai tronchi degli alberi, alle pietre, alle rocce per ascoltare la voce delle foglie, ciò che dicevano gli uccelli, ciò che raccontava l’acqua corrente. Ho visto l’alba e il tramonto, il sorgere della luna nell’immensa solitudine delle montagne, ho ascoltato i canti, le musiche tradizionali e le fiabe e i discorsi del popolo. E così si è formata la mia arte, come una canzone, o un motivo che sgorga spontaneo dalle labbra di un poeta primitivo”. 

È così che il 10 dicembre del 1926, davanti ad una scacchiera di intellettuali svedesi, Grazia Deledda esprime la sua gratitudine nell’essere conferita del Premio Nobel per la Letteratura: seconda dopo Carducci a essere insignita del più importante premio letterario, ancora oggi l’unica donna per il nostro Paese. 

Ed è proprio con il discorso di Grazia Deledda al conferimento del Premio Nobel che Livia Lepri e la Compagnia Danza Estemporada accendono i riflettori su quello che si è dimostrato essere un vero omaggio all’artista, a trentatré anni dalla sua scomparsa. 

La pacata, fine e sottile trasposizione scenica dell’opera di Deledda riflette fedelmente ciò che questa grande donna ha reso all’umanità intera, tutto ciò attraverso cui “per la sua potenza di scrittrice, sostenuta da un alto ideale, che ritrae in forme plastiche la vita quale è nella sua appartata isola natale e che con profondità e con calore tratta problemi di generale interesse umano”, ha potuto redimersi come donna e come artista di grande valore. 

Tramite una coerente installazione scenografica di specchi posti tutti intorno alla scena, come a varcare spazi profondi e toccare orizzonti lontani per sondare il grande animo di Grazia Deledda, Livia Lepri dipinge il ritratto di questa artista che ha da sempre creato visioni e pareri percorrenti un ventaglio di strade parallele, a volte convergenti a volte discordanti: dal verismo al decadentismo, dal favore della critica al disappunto dei propri conterranei, traditi dalla sua opera letteraria nella descrizione di una Sardegna come terra rude e arretrata. 

A rappresentare le mille sfaccettature di questo coraggioso animo, due danzatrici sul palcoscenico: la rappresentazione della vita e delle vicende umane viste dagli occhi di uno spirito umano coraggioso, fortemente legato alla sua terra natale, la Sardegna. La trasposizione in forma astratta e coreutica delle sottili sfaccettature psichiche, intime e profonde della personalità di Deledda, che si pongono come rappresentazione delle problematiche dell’esistenza quotidiana, in un’epoca di cambiamento quale fu la seconda metà dell’Ottocento Soprattutto, per dirla alla Vittorio Spinazzola, la messa in scena della crisi dell’esistenza, risultante “dalla fine dell’unità culturale ottocentesca, con la sua fiducia nel progresso storico, nelle scienze laiche, nelle garanzie giuridiche poste a difesa delle libertà civili”. 

Tutto questo è Grazia Deledda in “Riflessi”: tempi dilatati che danno voce al flusso di coscienza della scrittrice; luci riflesse a ricrearne l’atmosfera emozionale; infine, due umili figure di danzatrice in uno spazio astratto, avvolte da immagini specchiate, a ritrarne il suo essere, in un continuo e intimo scambio di parole e pensieri in movimento. 

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